sabato 10 marzo 2012

Dillon, Designing usable electronic text

 
In questo momento di grande sperimentazione con i testi elettronici, la carenza di buoni studi in materia si fa sentire. Certo, ci sono centinaia di lavori di corto respiro, ma i quadri d’assieme ben fatti sono pochissimi e ben nascosti. Da poco ne ho scovato uno: la seconda edizione di Designing usable electronic text di Andrew Dillon (CRC Press, Boca Raton, 2004, ISBN 978-0-415-24059, pp. viii + 215). I prezzi non sono popolari: il rilegato nuovo costa su Amazon 104 euro e 76 centesimi, che non sono male per un libretto di queste dimensioni, e perfino la versione Kindle costa 27,18 €. Io ho fatto acquistare con i miei fondi di ricerca una copia su carta alla biblioteca del Dipartimento di studi italianistici, me la sono presa in prestito e alla fine l’ho letta con estremo interesse – anche se il modo di scrivere di Dillon a volte mi è risultato insolitamente soporifero.
 
Per la sostanza, sintetizzerei il giudizio in quattro punti: due positivi, due negativi. I negativi, però, non sono colpa dell’autore... mentre i positivi sono ovviamente merito suo.
 
Negativo 1: la data
 
Il libro è stato pubblicato nel 2004: nell’evoluzione dei testi elettronici si tratta ormai di una data remotissima... soprattutto visto che si trova al di là del doppio spartiacque dato dalla diffusione del Kindle nel 2007 e dell’iPad nel 2010. Ma su questo, non è che Dillon all’epoca potesse far molto! Semmai, è un peccato che nessuno stia apparentemente pensando a un aggiornamento – ed è un peccato che alcune sezioni del libro, guardando i riferimenti bibliografici, sembrino risalire per l’impianto di base addirittura alla sua prima edizione (che non conosco), pubblicata nel remoto 1994, agli albori del web. Diciamo che il tutto non fa che rendere ancora più dolorosa la mancanza di uno studio aggiornato sugli stessi argomenti: il libro in sé rimane invece, per quel che ne so, un insostituibile punto di riferimento.
 
Positivo 1: la copertura
 
Il libro mette insieme in modo accurato una quantità sorprendente di informazioni. Il secondo capitolo (“So what do we know? An overview of the empirical literature on reading from screens”: pp. 35-69), per esempio, è la sintesi più accurata e ragionevole degli studi sulla lettura da schermo che mi sia mai capitato di incontrare. In generale, esaminando la bibliografia e sulla base dei propri lavori Dillon aderisce all’opinione dominante sulla maggiore lentezza della lettura su schermo rispetto a quella su carta. Fa notare però che in circostanze reali un dato generale del genere è quasi inutile: vuoi perché gli utenti si adattano a molte soluzioni, con l’esperienza, vuoi perché gli altri fattori sono, caso per caso, molto più importanti.
 
In particolare, apprezzo molto, dalla mia prospettiva, il peso che Dillon assegna ai generi testuali per quanto riguarda la capacità dei lettori di orientarsi nei documenti elettronici. “Clearly, a problem for digital document designers and users is the lack of agreed genre conventions that will support the formation of [information] shapes” (p. 131). Eh, già...
 
Positivo 2: il modello
 
Per guidare la progettazione dei “digital documents”, Dillon propone un modello interessante chiamato TIME (cap. 8). In sostanza, si tratta di descrivere il rapporto con l’informazione tenendo conto di quattro fattori: Tasks (T), Information modelling (I), Manipulation (M) e Visual ergonomics (E). Questo però è in sostanza solo un modo per ricordare che gli esseri umani, quando “leggono”, svolgono in realtà un’attività che ha obiettivi, si svolge sulla base di un modello più o meno preciso del testo e richiede manipolazione e accesso visivo alle informazioni. Non molto di più. Il che mi ha ricordato molto la griglia “per parlare delle pagine web” che ho inserito nel mio libro sull’italiano del web: criteri tutt’altro che geniali, ma che è necessario esplicitare e formalizzare in quanto molti si concentrano sull’uno o sull’altro perdendo clamorosamente di vista l’assieme.
 
Negativo 2: l’utilità pratica limitata
 
Il modello TIME di per sé non porta molto lontano. Si limita a indicare alcuni criteri da seguire per impostare un’analisi, ma non fornisce per esempio vere e proprie linee guida. Dillon lo integra con pratiche di studio di usabilità in cui l’utente viene spinto a interagire con il testo esprimendo a voce alta durante il lavoro le proprie impressioni e valutazioni – il che fornisce ai progettisti indicazioni utili per capire dove stanno sbagliano. Tuttavia queste sessioni sembrano più che altro normali studi di usabilità, in cui la presenza di un modello esplicito non aggiunge molto.
 
La domanda di base allora è: questi limiti sono dovuti alla mancanza di approfondimenti del modello, che non si è trasformato in linee guida per pratiche dimostrabilmente superiori? Oppure al fatto che, banalmente, non è possibile formalizzare più di tanto?
 

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